Veloce intervista: Marc Surer
Classe 1951 (è nato ad Arisdorf, nel cantone svizzero di Basilea Campagna, il 18 settembre di 71 anni fa), Marc Surer è uno dei piloti svizzeri più titolati della storia, nonché uno dei più completi, avendo vinto sia con le monoposto sia con le vetture a ruote coperte.
UNA LUNGA GAVETTA. È stato campione svizzero di kart nel 1972 per poi trasferirsi in Germania, dove nel 1974 si è laureato vicecampione di Formula Vee. Nel 1976 ha disputato il Campionato Europeo di Formula 3 facendosi notare da Jochen Neerpasch, il capo delle attività sportive della BM, che lo ingaggiò per l’anno successivo nel BMW Junior Team accanto a Eddie Cheever e Manfred Winkelhock. Due anni più tardi è stato vicecampione europeo di Formula 2 dietro a Bruno Giacomelli su March BMW per poi aggiudicarsi il titolo l’anno dopo al volante della March 792 BMW ufficiale.
FINALMENTE LA FORMULA 1. Nel 1979 è arrivato il debutto in Formula 1 nel Gran Premio degli Stati Uniti, dopo due mancate qualificazioni a Monza e in Canada, sempre sulla Ensign N179. Nel 1980 è passato alla scuderia tedesca ATS ma solo nel 1981 ha guadagnato i primi punti in campionato. Dal 1982 al 1984 e nel 1986 ha corso con la Arrows, mentre nel 1985 con la Brabham BT54 BMW ha sfiorato il podio in un paio d’occasioni, mancandolo a causa di noie meccaniche e conquistando solo 5 punti in campionato. Ma Surer è stato anche un ottimo rallista, ha preso parte a tre edizioni della 24 Ore di Le Mans, vinto un Campionato Superturismo tedesco con la BMW e corso nella serie monomarca BMW Procar nelle stagioni 1979 e 1980 con la M1.
DALLA PISTA AGLI STUDI TELEVISIVI. Nel 2016 un documento accademico basato su uno studio matematico che nella valutazione del pilota considera anche la macchina ha inserito Marc Surer al diciassettesimo posto nella classifica dei migliori piloti di Formula 1 di tutti i tempi. Dal 1996 Surer è commentatore dei Gran Premi di Formula 1, dapprima per Sky Sport Deutschland e in seguito e ancora oggi per la TV della Svizzera tedesca. Veloce l’ha incontrato a Zurigo poco prima della diretta del Gran Premio del Qatar.
Come è cambiato il lavoro di commentatore TV dei Gran Premi di Formula 1 da quando hai iniziato nel 1996 a oggi?
“Sostanzialmente le differenze sono due. Prima si andava di persona a tutti i Gran Premi, oggi si lavora soprattutto da casa o comunque dalle sedi televisive nazionali. Per un semplice motivo: anche andando sul posto e presidiando il paddock per tutto il weekend di gara, non si riesce più a ottenere una vera intervista esclusiva. Appena ti accosti a un pilota, o a un ingegnere, ecco spuntare il PR del team a chiedere: “Lei ha già un appuntamento?”. E quando si organizzano interviste ufficiali, comunque i conduttori di oggi non sono liberi di dire quel che pensano o vogliono. Stesso discorso per gli ingegneri anche se, conoscendone alcuni da molto tempo, come Adrian Newey, riesco a parlare con loro più liberamente. Certo, anche loro devono rispettare gli ordini di scuderia quanto a riservatezza, per cui, al massimo della confidenza, posso chiedere “cosa ne pensi di quell’innovazione che ha apportato la scuderia X?” o “sei già riuscito a vedere il nuovo pacchetto aerodinamico del team Y?”. Ecco loro sono in grado di dirti qualcosa della concorrenza, per cui si ottengono informali indirette. Una grande differenza poi è data dal fatto che di molti ingegneri io potrei essere il padre, per età, mentre dei piloti attuali sarei il nonno! Molti di loro non erano ancora nati, quando io ho smesso di correre”.
Nei paddock, quindi, ci si va sempre meno. Come si rimedia alla mancanza della magia della pista?
“Che oggi si lavori di più in remoto, o comunque a distanza, è un dato di fatto, piaccia o non piaccia. Per fortuna, ai Gran Premi qualche volta devo andare, per vedere le monoposto e parlare con qualche tecnico con cui riesco ancora a interfacciarmi personalmente, senza filtri, È altresì vero che non ha neanche senso, ormai, presenziare a 23-24 gare all’anno. Senza dubbio questo mestiere era più bello e gratificante alla fine degli anni Novanta, quando ho cominciato con Sky Sport Deutschland: il contatto diretto con i piloti, e che piloti, esisteva ancora. E poi c’era più spontaneità, senza che questo mettesse a rischio l’immagine dei team e degli sponsor. Difficile che tutto questo potrà tornare…”.
Hai corso per la Brabham nell’epoca in cui Bernie Ecclestone era il numero uno del muretto e Nelson Piquet la prima guida. Che ricordo hai di questi due giganti della Formula 1?
“Nel 1985 Bernie non aveva molto tempo da dedicare al suo team, essendo più concentrato sull’attività della FOCA, la Formula One Contructors’ Association, che gestiva tutto il business della Formula 1. Ma dei miei giorni alla Brabham conservo dei bei ricordi con Bernie. Prima di tutto, è stato l’unico team principal che mi ha pagato correttamente, dandomi quanto concordato senza bisogno di contratti o altre formalità. Puntualità e correttezza totali. Non ho avuto molte occasioni di dovergli parlare per questioni legate alla nostra monoposto, la BT54 BMW, ma quando se ne presentava il bisogno, magari ai box, era lui stesso a chiedermi se c’erano problemi. Io glielo spiegavo, e lui chiamava Gordon Murray per farlo risolvere.
E Piquet?
“Con Nelson non siamo mai stati amici nel senso profondo del termine, ma tra noi c’è sempre stato il massimo rispetto. Lui era velocissimo, soprattutto in qualifica: gomme da tempo, massimo boost al turbo e viaggiava due secondi al giro più veloce di tutti. Andava più forte di me e non ho potuto far altro che prenderne atto, cosa non facile per un pilota professionista che vive di velocità. Potevo avvicinarmi alle sue prestazioni solo in una mia giornata di grazia. Va comunque detto che quella Brabham era stata cucita sulle sue esigenze e sul suo stile di guida, e questo sempre in Formula 1 determina un certo gap. Un po’ come le RedBull del periodo di Max Verstappen, ma non c’è nulla di strano, perché la configurazione di base viene fatta in base alle richieste del pilota di punta. In ogni caso, è sempre un piacere per me rivedere Nelson, per esempio quando interveniamo agli eventi del BMW Classic Group per guidare le auto da competizione della Casa bavarese in pista”.
Con la Brabham hai ottenuto il miglior punteggio in una stagione, ma la maggior parte dei punti in Formula 1 li hai accumulati con la Arrows. Com’era quel team oggi scomparso?
“Per me la Arrows è sempre stata una seconda famiglia. Ho corso con il team di Jackie Oliver per quattro stagioni, di cui tre consecutive, più le prime cinque gare del 1986, prima del mio incidente in un rally in Germania. Sento di tanto in tanto ancora alcuni dei miei ex meccanici e mi capita di incontrare Jackie in qualche occasione”.
Che auto guidi oggi?
“Come ambasciatore del marchio BMW ho una loro auto di servizio, che in questo periodo è una M440i xDrive. Gran macchina, peccato solo che oggi venga prodotta solo con il cambio automatico, trasmissione che io detesto”.
I tuoi piloti preferiti?
“Se guardo al passato, Ayrton Senna, che ho seguito sin dai suoi esordi con i go-kart. Oggi ammiro molto Kalle Rovanpera, campione del mondo rally non certo per caso nell’edizione 2022 e quasi pronto a riconfermarsi quest’anno”.
Quali sono le auto che ti hanno fatto e continuano a farti sognare?
“La BMW M1 mi ha cambiato la vita, permettendomi di partecipare al campionato ProCar che si disputava a margine dei Gran Premi di Formula 1 all’epoca in cui stavo debuttando. La Lamborghini Miura è la quintessenza della supercar degli anni Sessanta. Tra quelle di oggi, mi affascina molto la Maserati MC20. Una macchina meravigliosa sotto ogni punto di vista”.