“The Golden age of Rally”: guai a chi la perde
STORIA MERAVIGLIOSA. Le rivalità sportive tra costruttori che hanno fatto la storia dell’automobile. Le sfide tra piloti latini e scandinavi, costretti gli uni e gli altri ad affinare il loro stile di guida per essere competivi anche sui terreni a loro meno congeniali. L’impatto nella cultura di massa di vetture divenute vere leggende, il cui significato trascende dal loro essere “semplicemente” macchine capaci di prestazioni fuori dal comune. Ci sono tante storie, nella grande storia dei rally, e un modo bello e appassionante per scoprirle è visitare la mostra “The golden age of rally”, che rimarrà aperta fino al 2 maggio 2023 al Museo Nazionale dell’Automobile di Torino. Ad accompagnarci lungo il percorso espositivo – 19 vetture più uniche che rare e una lunga serie di cimeli, il tutto proveniente dalla Fondazione Macaluso – è Stefano Macaluso, curatore della rassegna insieme a Federica Ellena.
Non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte a vetture che hanno vinto tutto, rendendo il rally lo sport avventuroso e spettacolare che conosciamo oggi. Quale viaggio attende i visitatori?
È un viaggio attraverso quattro decenni di sport, di gioco di squadra, di grandi donne, uomini e macchine, ma soprattutto di cultura. Il percorso espositivo segue l’estensione temporale delle auto che lo compongono, quindi dagli anni ’60 agli anni ’90.
Come lascia intuire il titolo della rassegna, si tratta dell’epoca d’oro dei rally. Cosa è cambiato dopo?
I rally hanno avuto un forte impatto sul pubblico perché, fondamentalmente, sono nati come espressione delle grandi trasformazioni degli anni ’60. Non a caso abbiamo scelto di aprire la mostra con la Mini Cooper con cui Timo Mäkinen e Pekka Keskitalo vinsero il Mille Laghi nel 1967, procedendo senza vedere nulla per diversi chilometri, dal momento che il cofano, sganciandosi all’improvviso, si spalancato oscurando il parabrezza. In quegli anni la gente s’accorse che una macchina di normale produzione poteva vincere una delle gare più importanti del mondo. Oggi, per molti aspetti, il rally è tutto un altro sport. Le auto non sono mai state evolute, veloci e sicure come lo sono oggi. È cambiato anche il pubblico, oggi molto più social, un tempo vero dodicesimo uomo in campo, con i tifosi a fare il tifo ai bordi delle strade. Negli anni ’70, per intenderci, Lancia contro Fiat era un derby sentito come Juve-Toro. Quanto ai piloti, mi piace dire che oggi somigliano più a degli astronauti che a dei corridori. D’altronde oggi le corse si giocano sul filo dei decimi di secondo. E quello che, a livello di strategie di gara, una volta facevano i cervelli umani, oggi lo fanno i computer.
A proposito di piloti: probabilmente 8 appassionati su 10 direbbero che il pilota più forte di tutti i tempi in F1 è Senna. E nei rally?
Dico Senna anch’io, senza dubbio. Ayrton era puro genio artistico: per capirci, guardare oggi il video di un suo giro veloce per me è come leggere una terzina di Dante. Posso dire lo stesso di Miki Biasion, il mio idolo da ragazzino. Una volta ho avuto l’occasione di sedergli accanto su una Lancia Delta: forse esagero un po’, ma per un appassionato come me vederlo guidare è stato come guardare Michelangelo dipingere la Cappella Sistina. Venendo ai rally, credo sia impossibile e anche un po’ ingiusto dire chi sia stato il pilota più forte di sempre. Sono cambiate troppo le auto, sono cambiati troppi i tempi, e con loro gli ambienti in cui i piloti svolgono il loro mestiere. Quel che è sicuro è che i fuoriclasse sono sempre della stessa razza. Il talento puro non ha età.
Seconda richiesta “ingiusta”: scelga due auto che, da sole, valgono la visita.
Prima di rispondere, credo valga la pena precisare che tutte le auto da corsa della Fondazione Macaluso sono appartenute a team ufficiali. E che tutte sono state restaurate per preservarne lo stato di conservazione, seguendo un percorso filologico messo a punto nel corso degli anni con il contributo di mio fratello Massimo e di una commissione composta da ex membri delle squadre corse Fiat, Abarth e Lancia. Se proprio dovessi sceglierne due, comunque, direi la Mini di Mäkinen-Keskitalo, che sulla carrozzeria ancora porta i solchi provocati dalla rottura del cofano, e la Delta Safari di Kankkunen-Piironen del 1992. La cosa bella di quella macchina è che oggi appare esattamente come tornò a Torino dall’Africa: il tetto, danneggiato in seguito a un capottamento, fu sostituito dalla Lancia e in macchina c’è ancora il machete che agli equipaggi, in casi estremi, poteva tornare utile per aprirsi un varco nella foresta africana.
La mostra si chiude con un’auto assai più moderna delle altre. Ma cosa ci fa una Fiat Punto nel gotha dei rally?
È una vettura a cui la famiglia Macaluso è legata da un profondo legame affettivo. Non si tratta di una Punto qualsiasi, ma della Super 1600 con cui il team R&D Motorsport, fondato da mio padre Gino nel 2000, partecipò al Junior WRC nel 2001. Dopo un’assenza di lunghi anni dalla scena internazionale, il nostro desiderio era di far tornare a correre un’auto italiana e, in particolar modo, una Fiat, marchio al quale mio padre era molto legato (esattamente cinquant’anni fa Gino Macaluso, con il pilota Lele Pinto, vinse il Campionato europeo con una Fiat 124 Sport Spider 1600, ndr). I piloti erano mio fratello Massimo e Andrea Dallavilla, che quell’anno andò davvero forte. Battagliammo ad armi pari per tutta la stagione con la Citroën Saxo di un allora sconosciuto Sébastien Loeb. Alla fine il campionato lo vinse lui, ma resta l’orgoglio di essere stati secondi a un futuro nove volte campione del mondo. Un risultato possibile grazie a un grande gioco di squadra: ancora oggi ringrazio tutti e una menzione speciale credo spetti al capotecnico, Franco Innocenti detto “Inox”. La sua straordinaria esperienza maturata in tanti anni di Lancia, Fiat e Abarth si è rivelata preziosissima, così come il suo incredibile lavoro di alleggerimento sulla Punto.
Cosa rimarrà a chi visiterà questa mostra? Qual è il senso da ricercare dietro l’emozione per la velocità?
Mi auguro di vedere un pubblico il più vario possibile. Per questo abbiamo lavorato curando ogni singolo dettaglio, facendo in modo di non scontentare il visitatore più esperto, ma anche e soprattutto d’incuriosire e avvicinare al mondo dei rally chi non ne sa nulla o è troppo giovane per ricordare quei tempi irripetibili. In visita al Mauto vengono tante scolaresche, anche dall’estero. A tutti, ma soprattutto ai bambini e ai ragazzi, vogliamo dire che il rally non è solo uno sport, ma è anche cultura. Lo spieghiamo ogni giorno con la fondazione intitolata a mio padre e credo questa mostra sia un bel modo per ribadirlo.