Quarant’anni di Dakar. Tra miti e leggende

Quarant’anni di Dakar. Tra miti e leggende

Comincia tutto nel 1976 quando, durante il raid Abidjan-Nizza, Thierry Sabine si perde nel deserto. Tutto sommato, sono cose che possono succedere. Come pure che il malcapitato sia colto da uno sconforto improvviso o impazzisca per le allucinazioni. Ci sta. Ecco, lui invece, ritrovata la via di casa, se ne torna a Parigi in un evidente stato di Mal d’Africa. Passano tre anni e ormai tutti pensano che gli sia passato. Invece, alla fine del 1978, eccolo lì, al Trocadero, con un manipolo di impallinati, pronti a lasciare la gelida Parigi per le assolate spiagge di Dakar. In mezzo, 10mila chilometri di sabbia, dune e tanto deserto. Et voilà: ecco la prima Parigi-Dakar (vinta da Cyril Neveu su quel mulo meccanico che era la Yamaha XT500. Ferma come un cancello, ma molto affidabile). Maratona massacrante come nessuna (in quell’anno partirono in 182 e arrivarono in 74), la Dakar diventa subito una delle grandi classiche del motorismo a due e quattro ruote (Porsche 959 e camion Daf da 1200cv inclusi). Quindi non è un caso se già nell’ ’83 addirittura Mr Le Mans Jacky Ickx decide di partecipare. E vincere (su Mercedes GE 280). E se nel resto del mondo gli anni ’80 vedono nascere icone pistaiole come Ayrton Senna o rallistiche come la Delta Integrale, nel nordafrica vengono lanciati veri e propri miti a due ruote, ferri duri e puri con eredi che sopravvivono ancora oggi, a quarant’anni di distanza: Bmw GS, Honda Africa Twin, Yamaha Teneré e Suzuki DR Big.

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LE LIVREE. Perché la Dakar, oltre alle moto, a questi modelli immortali, ha lanciato anche la moda delle livree: grafiche che venivano replicate fedelmente nella produzione in serie o, più alla buona, comprando gli adesivi al mercato della domenica. Uno dei segreti di questa pulizia estetica è sicuramente che in quegli anni le cose erano semplificate dalla presenza di main sponsor (leggi, i soliti tabaccai: Camel, Chesterfield, Gauloises, Lucky Strike e Marlboro) che potevano comprarsi ogni centimetro di plastica disponibile per inventarsi un disegno coerente. La prima bomba sexy è stata la Bmw R80 G/S di Hubert Auriol (e di Gaston Rahier poi): la bavarese vince e convince. La livrea Marlboro svecchia immediatamente il motore boxer e quel serbatoio maggiorato diventa il sogno proibito di tutti i bmwisti. I colori rosso e bianco tornano anche sulla Suzuki DR 800 Big (poi anche in versione Camel): un gigantesco mono dalle linee futuristiche con quel becco liberamente ispirato alla Katana stradale che diventa la cifra delle Suzuki di quegli anni.

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ITALIANE E GIAPPONESI. La Cagiva di Edi Orioli invece è Lucky Explorer. L’estetica è caratterizzata da quei tondi giganti e dal cupolino nero. Ma gli appassionati guardano ammirati a quel motore desmo Ducati che vince anche nel deserto. Del resto il mago del bicilindrico aveva inaugurato la sua serie di vittorie proprio con un’Honda Africa Twin (1988). E anche se il suo ultimo oro è stato con una Yamaha è un altro il pilota legato indissolubilmente alla Casa dei tre diapason e ai colori Chesterfield: Franco Picco. Eterno secondo, ma solo alla Dakar, visto che nelle altre gare africane il vicentino vinceva volentieri. Su queste sabbie si sono viste anche due altre rivali italiane (che poi sarebbero diventate sorelle): l’Aprilia Tuareg Wind e la Gilera 600 RC.

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ESTENUANTE. Con tappe di quasi 1000 chilometri al giorno è ovvio che l’avversario da battere fosse la fatica, mentre gli altri concorrenti erano semplicemente quelli che ti davano una mano se ti capitava qualcosa a migliaia di chilometri da tutto e da tutti. Ecco spiegate quelle foto di gruppo, con l’oceano sullo sfondo, dove avversari come Picco e Orioli posano insieme, entrambi contenti di aver vinto. Perché arrivare a Dakar voleva già dire vincere.

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DAKAR, GIOIE E DOLORI.  Una gara massacrante e a tratti sfortunata, la Dakar. Nel 1982 un Hercules C-130 militare sorvola il Sahara, c’è chi teme il peggio. Ma per fortuna questa volta si è solo perso un figlio di mammà Thatcher (primo ministro di Sua Maestà), prontamente ritrovato. Meno fortunato Sabine, il creatore di tutto l’ambaradan, che precipita in elicottero mentre sta sorvolando la gara. A queste latitudini l’asso pigliatutto è Stéphane Peterhansel: 13 vittorie, 6 in moto e 7 in macchina. Mentre la maglia nera per la sfiga va a Fabrizio Meoni. Che ne vince due e interrompe tragicamente la sua ultima Dakar al chilometro 184 (tra Atar e Kiffa, in Mauritania). È lui il pilota che iniziato la fortunata serie di vittorie KTM, trasformando l’odierna Dakar praticamente in una monomarca. Ma questa è un’altra storia.

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