Mazda 787B, il bolide col rotativo che sbancò Le Mans
Domenica 23 agosto 1991, ore quattro del pomeriggio. Mentre sfreccia sul traguardo del rettilineo di Mulsanne al volante della sua Mazda 787B verde-arancio, Johnny Herbert riceve una comunicazione radio da far tremare i polsi. È un momento storico per il costruttore giapponese e lo sport automobilistico: il team Mazdaspeed, braccio sportivo della casa di Hiroshima, ha vinto la 24 Ore di Le Mans alla velocità media complessiva di 205,333 km/h. Il sapore della gioia per la vittoria nella massacrante maratona tra i cordoli del circuit de la Sarthe si mischia a quello di un’impresa unica e tuttora irripetuta: trionfare nella gara di durata più famosa del mondo con un’auto a motore rotativo.
O LA VA O LA SPACCA. Per la Mazda e il suo potente motore rotativo, un Wankel a quattro rotori in linea da 700 cavalli, la 24 Ore di Le Mans del 1991 è una specie di finale: dall’anno successivo, infatti, i motori a pistoni rotanti saranno vietati dal regolamento. La squadra guidata da Takayoshi Ohashi (responsabile della scuderia nata nel 1967 nell’ambito di un programma sportivo varato da una delle concessionarie più importanti della casa nipponica, la Mazda Auto Tokyo) e Takaharu Kobayakawa (capo progetto della Mazda RX-7 e delle attività motoristiche dell’azienda) può contare sull’esperienza accumulata in 13 partecipazioni negli ultimi diciott’anni e su un tridente dal grande peso specifico: con il britannico Herbert, al volante della 787B si alternano il tedesco Volker Weidler e il belga Bertrand Gachot.
L’IMPRESA VERA È ESSERE AFFIDABILE. Gli alfieri della Mazda, tutti e tre forgiati da trascorsi più o meno lunghi e proficui in Formula 1, conducono una corsa abbastanza tranquilla. Weidler parte fortissimo dalla dodicesima posizione e l’auto funziona come un orologio svizzero per tutta la notte, pur non essendo tra le favorite per la vittoria finale. A tre ore dalla bandiera a scacchi, mentre la Mazda numero 55 si trova in seconda posizione anche grazie ad alcuni ritiri illustri, la Mercedes-Benz C11 in testa alla gara è costretta a fermarsi per un guasto al motore (l’unica freccia d’argento che riuscirà a terminare la corsa sarà quella dell’allora ventiduenne Michael Schumacher, quinto al traguardo con il giro più veloce in gara). Pure le Porsche 962 accusano alcune noie meccaniche, mentre i piloti della Jaguar sono costretti a giocare in difesa a causa dell’eccessivo consumo di carburante dello loro XJR-12. Così, contro ogni pronostico, il leggerissimo bolide di Herbert e compagni si trova spianata la strada per la vittoria. Il bottino finale del team Mazdaspeed è ulteriormente impreziosito dai buoni risultati delle altre due 787B schierate ai nastri di partenza: la numero 18 di Kennedy-Johansson-Sala chiude in sesta posizione, mentre la nunero 56 di Dieudonné-Yorino-Terada finisce ottava.
DREAM TEAM. Così Herbert ricorda la vettura con cui esattamente trent’anni fa è entrato nella storia insieme ai compagni di squadra e alla Mazda: “[La 787B] era molto più semplice da guidare rispetto a una Formula 1 e il motore rotativo era qualcosa di eccezionale, filava liscio come la seta”. A distanza di tanti anni, il pilota nato a Bretwood non ha mutato idea sul cambio, scherzosamente giudicato dal vincitore della 24 Ore di Le Mans “il più lento del mondo”, ma incredibilmente resistente all’usura e allo stress al quale fu sottoposto durante le 24 ore della gara. La 787B fu il naturale risultato del duro lavoro di una squadra costruita per vincere. “Mazdaspeed era un team piccolo rispetto alle grandi potenze come Mercedes-Benz e Jaguar”, racconta Herbert, che sottolinea il ruolo fondamentale di Ohashi, “molto scaltro e con un grande senso dell’umorismo”, nel mettere insieme alcune delle “migliori menti ingegneristiche” dell’epoca, come il progettista britannico Nigel Shroud, e veterani per cui le gare di durata non avevano segreti, come Jacky Ickx, consulente d’eccezione e team manager che la 24 Ore di Le Mans l’aveva vinta sei volte.
EMOZIONI INDELEBILI. In Herbert è nitidissimo anche il puzzle dei ricordi della corsa, che ha impressa nella mente e nel cuore dalla partenza al trionfo finale: l’urlo del motore “mentre risuonava tra gli spalti della tribuna principale e il paddock”; i tifosi appisolati a notte fonda sulle sedie e nei sacchi a pelo a bordo pista, illuminati dalle fiamme sputate dallo scarico della 787B durante i cambi marcia alla curva di Indianapolis; ma soprattutto “l’enorme sorriso” sul volto di Ohashi quando la Mercedes fu costretta a deporre le armi per problemi di surriscaldamento al motore, cedendo la testa della corsa alla Mazda, che poté così completare la sua cavalcata trionfale. Davanti al fiume di tifosi che si riversò sull’asfalto del circuit de la Sarthe per festeggiare la vittoria della vettura numero 55, alle quattro del pomeriggio del 23 agosto 1991 la Mazda riuscì nell’impresa eccezionale di trasformare un’automobile da corsa in un’icona destinata alla gloria eterna. Soprattutto in patria, sottolinea Herbert, visto che per ritrovare un costruttore giapponese nell’albo d’oro della 24 Ore di Le Mans “ci sono voluti 27 anni”, con la vittoria nel 2018 della Toyota di Fernando Alonso, Kazuki Nakajima e Sébastien Buemi. Altri tempi, altre macchine, stesse indelebili emozioni.