Goodwood FOS: con dedica alle beniamine della velocità

Goodwood FOS: con dedica alle beniamine della velocità

Dal 1993 c’è un posto nel mondo dove ogni anno si festeggia la velocità. No, non è una gara di Formula 1, neanche il TT o Le Mans. È il Festival of Speed di Goodwood, bellezza. Che quest’anno, il Duca di Richmond e Gordon, ha dedicato agli ‘Speed Kings, motorsports record breakers’. A quei manici, cioè, che hanno polverizzato tutti i record, diventando sovrani indiscussi della velocità. Questa sconosciuta.

Già. Perché che cosa sia la velocità lo sai da sempre, almeno da quella volta che tuo padre ha accelerato forte e hai sentito un vuoto nello stomaco, o a quell’altra del tuo motorino truccato, che era il più forte di tutti. O di quando avevi il cuore che andava in fuorigiri per una biondina… Insomma, che la velocità sia un’emozione l’hai capito da un po’. Ma ti sei mai chiesto che faccia abbia davvero, questa benedetta musa ispiratrice che ha affascinato generazioni di progettisti, designer e piloti? Magari quella di un contachilometri con scale impossibili? O invece sono le prese d’aria sulle fiancate? O i panorami che scappano veloci fuori dal finestrino? O quel rumore assordante…

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A queste domande Goodwood risponde: tutte queste cose (e anche di più). Perché la verità è che in oltre un secolo di motori, l’uomo per sfidare la divinità più temuta, il tempo, ha dovuto usare tutte le armi che aveva disposizione. Anche le più improbabili. Tutto è cominciato con i 19 km/h delle carrozze a motore, con trasmissione a catena e tanto che dio ce la mandi buona sopra, poi sono arrivate le carrozzerie aerodinamiche, quelle con le forme sinuose che le rendevano sexy anche davanti ai café parigini della Belle Epoque. Sono gli anni in cui la velocità comincia a farsi vedere, anche da ferma. Poi le auto si spogliano: arrivano i ruggenti anni ’60, che oltre alle ruote scoprono anche gli ammortizzatori, mentre le carrozzerie si allungano come fusoliere d’aerei. E quando spuntano le ali, sono ormai pronte a volare sull’asfalto.

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Fino ad allora, a parte per i portafortuna (la tartaruga che D’Annunzio regalò a Nuvolari, la pipa di Bonetto, il quadrifoglio dell’Alfa di Sivocci o il cavallino di Baracca sulle auto della Scuderia Ferrari), i piloti li riconoscevi solo per i colori della carrozzeria. Rossa le italiane, blu le francesi, verde le inglesi eccetera eccetera. Ma solo se eri lì, che sui giornali erano tutte in bianco e nero. Ma a un certo punto succede qualcosa: gli eroi cominciano a sfoggiare tute e livree. E si trasformano in supereroi. La fascia scozzese sul casco di Jackie Stewart, i colori Gulf, quelli Marlboro o Martini. Non basta un mantello rosso per volare come Superman, certo. E neanche col cappellino Nacional in testa vai più forte. Ma sei più figo.

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La velocità è una cosa diabolica, si sa, per questo si nasconde nei dettagli: tecnici, estetici, scaramantici. Sulle carrozzerie lucenti o ammaccate, sporche di Le Mans o ricoperte da quella patina che sa di storia e di chilometri a palla. Sono particolari come le maniglie a scomparsa, i freni carboceramici o i sedili in alluminio battuto alla buona. O le fibre di vetro e carbonio, che solo a Goodwood vedi così bene intrecciate insieme, su quell’erba alla Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Un invito a imprese eroiche. Se sei fortunato, poi, in mezzo a tutta quella gente, riesci anche a notare il balenare di quel dettaglio che scappa dentro il bosco, sulla salita. È lì che finalmente vedi in faccia la velocità. E la riconosci subito.

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