Ferrari Modulo, muoversi tra le polemiche
Lui è un car designer come ce ne sono pochi, un maestro, una reliquia vivente avvolta in un alone di mistero che nel suo peregrinare ha sempre pensato e agito fuori dagli schemi. Lei, più semplicemente, una delle concept-car più famose e sconvolgenti di sempre. Paolo Martin e la Ferrari Modulo sono protagonisti di una favola tra le più romantiche nella storia dell’automobile. Come uno scultore abituato a dare forma a qualsiasi idea gli passi per la testa in totale autonomia, Martin plasmò l’oggetto dei suoi sogni da un blocco di polistirolo. Chiuso nei laboratori deserti della Pininfarina in una calda estate torinese: non pensò a un’automobile, ma a una scultura statica. Qualcosa che non esisteva, un’opera figlia del suo tempo eppure, in virtù di una sintesi formale tanto ardita quanto libera da ogni categorizzazione, capace di anticipare universi lontani e spazi della mente inesplorati.
UN’OPERA D’ARTE. Irriverente, estrema, geniale. Forse fin troppo. Almeno per Pininfarina, che non riuscì mai a comprenderla e lasciò trascorrere addirittura tre anni – dal 1967 al 1970 – prima di spogliarla del telo con cui l’aveva coperta ed esporla sotto i riflettori del Salone di Ginevra. Da quel celebre profilo sfuggente schizzato di getto su un pezzo di carta alla realizzazione della maquette in scala 1:1 non passò molto tempo; del resto Paolo Martin non è soltanto un abile disegnatore, è soprattutto un uomo d’azione, un creativo puro abituato a pensare in tre dimensioni e a plasmare la materia al di là dei sogni. Troppo seducente per restare su un foglio di carta, la Modulo uscì dal tecnigrafo di Martin con la forza travolgente di un’idea unica e potente, acquisendo da subito la consistenza di un desiderio proibito. Un oggetto misterioso pensato per essere ammirato in religioso silenzio e mai toccato. Un’opera d’arte che – nella visione dell’artista – mai e poi mai avrebbe dovuto abbandonare il suo status di progetto di ricerca stilistica e mettere le ruote su strada. E invece…
PERCHÉ NON PARLI? Invece accade che sulla Modulo mette prima gli occhi e poi le mani James Glickenhaus, produttore cinematografico statunitense e grande collezionista di automobili con una predilezione per le auto da corsa Anni ’50 e ’60 e il pallino delle Ferrari. Rare. Nel 2014 l’acquista dalla Pininfarina e la mette accanto ad altri pezzi da novanta, tra i quali spicca – guarda caso – un’altra one-off del Cavallino firmata da Paolo Martin: la Dino Competizione. Il passaggio di mano si concretizza, l’importo esatto – come spesso avviene in questi casi – mai dichiarato. Fin qui tutto normale, nel dorato mondo dei collezionisti milionari. Ma c’è un ma. Glickenhaus non colleziona per il piacere di godersi i suoi cimeli sotto una campana di vetro. Per lui le auto non sono oggetti da salotto. Vanno guidate. Così la Modulo subisce una serie di interventi strutturali e non poche modifiche estetiche rispetto all’idea originaria. Il suo nuovo proprietario vuole che sia guidabile, non gli basta che ‘parli’ attraverso il linguaggio formale che ha stregato gli appassionati di mezzo mondo.
IL COLLEZIONISTA. Dopo un lungo e laborioso restauro, la Modulo ha cominciato a ruggire non tardando a far parlare di sé e del suo nuovo proprietario. C’è chi ha subito gridato all’eresia, conferendo alla Modulo lo status di opera d’arte contemporanea, un oggetto sacro da lasciare tale e quale come è stato concepito. Per Glickenhaus, nemmeno il tempo di godersi il grey carpet di Cernobbio da protagonista indiscussa (e discussa) del Concorso d’Eleganza di Villa d’Este e, in una passeggiata per le vie di Montecarlo, la coda della Modulo va in fiamme. Apriti cielo!
UN COLPO ALL’ANIMA. Sulle rive del lago di Como la musa di Paolo Martin era apparsa piuttosto diversa da com’era nata. Non solo sottopelle, ma anche fuori. A cominciare da un colore che non è l’azzurro perlato in cui fu concepita. Per non parlare degli specchietti retrovisori definiti aftermarket. In testa ai critici più severi di quest’operazione, ovviamente, non può che esserci l’uomo che più di cinquant’anni fa la plasmò con le nude mani da un blocco di polistirolo. “È un restauro che non si sarebbe mai dovuto fare – disse Martin lo scorso maggio al Corriere della Sera -. La Modulo è un oggetto di ricerca, un’idea portata all’estremo. Mai avrei pensato che un giorno avrebbe dovuto rispettare le norme del codice della strada. Quello che hanno fatto è una scelta egoistica, fuori da ogni ragione”. Ma per Glickenhaus, evidentemente, l’idea di guidarla era molto allettante. Come del resto, per molti appassionati, il solo pensiero di vederla camminare sulle due ruote. E così eccoci sul circuito di Cremona, la scorsa settimana – in occasione dello shake down della SGC004C – l’abbiamo rivista prender vita. Tra le mani di Glickenhaus.