Due cilindri e una sella: l’essenza della moto
So come ti senti. Sei ancora dispiaciuto di non esserci stato, quella volta là della prima Hildebrand & Wolfmüller. Consolati, anch’io non c’ero nel 1894. E così ci siamo persi entrambi l’esordio del motore bicilindrico tra due ruote. Peccato. Soprattutto perché guardando i numeri dev’essere stato proprio un debutto col botto: una bestia di 1489cc che sputava 2,5 cv a 240, miseri, giri (e un peso di 50 chili). Che roba, eh? Comunque hai ragione tu, a vederla oggi più che altro sembra una bicicletta per signorine. Invece allora era una roba da macho, un lascia o raddoppia, un o la và o la spacca in chiave ingegneristica. Tu pensa solo che per ovviare l’inerzia dei pistoni, visto che non avevano previsto un volano, si son dovuti attrezzare con quello che avevano in casa: e cioè un bell’elastico per ricaricare il movimento. Però adesso non distraiamoci, che gli occhi devono essere tutti per i cilindri: uno per ciascuno.
PAESE CHE VAI, BICILINDRICO CHE TROVI. Relativamente semplice e economica, questa soluzione fa subito innamorare i centauri di tutto il mondo. Peso e dimensioni sono su per giù quelli di un mono, ma potenza e erogazione gratificano decisamente di più. E in Inghilterra scoppia la moda del ‘twin’. All’inizio i sudditi di Sua Maestà conquistano il mondo con l’esuberanza dei motori JAP (sigla che sta per John Alfred Prestwich): un V2 tanto bello, quanto affidabile che, a un certo punto, motorizza qualsiasi cosa sia provvista di ruote. Che siano due come le Brough Superior di Lawrence d’Arabia o addirittura tre come le Morgan Super Sport. Ma poi c’è un’inversione di tendenza, e di disposizione. I britannici s’innamorano dei paralleli montati trasversalmente che, da quel giorno, diventano il loro marchio di fabbrica. Soluzione che semplifica tante cose, non ultima il raffreddamento garantito dall’aria sparata in faccia, ha fatto battere il cuore delle inglesine più belle di sempre: dalla Triumph Bonneville del ’59 alla Norton Commando di quasi un decennio dopo, per non parlare di AJS, BSA e Matchless. Nel frattempo, in Germania, il bicilindrico viene vivisezionato. I bavaresi hanno aspettative altissime per questo tipo di motore. Fantasticano di baricentri abbassati e manutenzioni agevolate. Caratteristiche che renderanno il neonato boxer una vera e propria macchina da guerra (e letteralmente). L’intuizione è geniale: non è un caso infatti che il motore boxer della Bmw R32, classe 1923, non abbia fatto che evolversi nel corso degli anni, fino ad equipaggiare le GS contemporanee.
COLPO DI SCENA, COLONIA BATTE COLONIZZATORE. Succede in America, dove il V2 con aste e bilancieri diventa lo standard motociclistico. Con questa soluzione ‘all’inglese’, Harley Davidson riesce a superare, come vendite e longevità di produzione, tutti i marchi della Gran Bretagna che, soprattutto negli anni ’60, avevano cercato di (ri)conquistare gli States a suon di comparsate in film memorabili (come Il selvaggio, con la coppia esplosiva Triumph-Marlon Brando). Come mai il ‘Big Twin’ di Milwaukee ha tutto questo successo? La verità è che la vita dei motori a stelle e strisce non si misura in miglia o chilometri, ma, viste le distanze sconfinate da coprire, in ore di marcia. Il requisito numero uno, quindi, è l’affidabilità. Ecco perché i classici V2 HD hanno quella corsa lunga e ben distesa e a 2000 giri hanno già detto tutto quello che devono dire.
SOL LEVANTE, PERICOLO COSTANTE. Nel lontano est, invece, i giapponesi si specializzano in colpi di scena. Il più plateale è stato quello di essere riusciti a trasformare le bicilindriche in reginette della Dakar: bestie da soma, sexy ancora oggi (a tal punto che sia Yamaha che Honda continuano a produrre moto che si chiamano Super Ténéré e Africa Twin. Ma l’estro nipponico non si è fermato qui: negli anni ’90, infatti, è anche stato capace di immaginare la Honda Pacific Coast. Un pachiderma semovente, con un boxer incapsulato in un look che mette d’accordo scooteristi tangenzialieri e turisti della domenica. Ma l’applauso arriva con la compianta Suzuki RGV Gamma 250cc: due tempi e due cilindri. Per due ruote strappate ai granpremi (62cv a 11000 giri per poco più di 150 kg).
E IN ITALIA? OGNUNO FA A MODO SUO… La cosa non sorprende nessuno, vero? Già, perché nella terra di guelfi e ghibellini abbiamo sempre messo in discussione quello che facevano all’ombra del campanile di fianco. Idem per come piazzare questi due cilindri. “Tu li metti così? Ah sì? Allora io lo metto cosà”. E, come succede spesso, siamo stati quelli che hanno creato le soluzioni più interessanti. Cominciamo dagli anni ’50: prendi il bicilindrico a sogliola del 125 Rumi, una quarto di litro con una pulizia di disegno da appendere al muro (per non parlare del Gobbetto, che portava la stessa carica sexy in circuito). O il parallelo frontemarcia della Gilera B300: guarda la testa, proprio dove si innestano i tubi di scarico. E poi mi dici. I due cilindri, ma inclinati di 90 gradi e montati trasversalmente, in Guzzi arrivano a metà anni ’60: sulla V7 dell’ingegner Carcano. In Ducati, invece, dal singolo si passa al doppio carpiato di Taglioni. Che non solo monta il motore a L in posizione longitudinale, ma aggiunge una complicazione che sa di alta orologeria (e che diventa la cifra di Borgo Panigale): la distribuzione desmodromica. Sempre negli anni ’70, c’è un’altra emiliana, la Morini, che fa sognare gli smanettoni. Con la 3 ½, 6 marce e un peso piuma tutto da guidare. Interessante, anche se non strappacuori, la Morini Camel degli anni ’80, un’endurina 500cc, sempre bicilindrica (ah, se sei un fan del due made in Italy per saltare nelle pozzanghere, eccoti una lista della spesa: Cagiva Elefant Lucky Explorer, col motore Ducati -, la Guzzi Quota e la Gilera 125 B da cross dell’ingegner Jan Witteveen. Che meriterebbe il premio Oscar come miglior scomparsa: era un bi-rotativo!). Ma non è finita. Prima che le quattro cilindri giapponesi conquistassero il mondo al grido di ‘più cilindri per tutti’, il bicilindrico fa a tempo a lanciare l’ennesima moda: quella delle maximoto. Le top model arrivano da Breganze, sono 750, e sfilano indossando i colori delle Porsche 911 di cui andava matto il loro inventore: Massimo Laverda.
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