CEM, l’iniezione elettronica Alfa Romeo

CEM, l’iniezione elettronica Alfa Romeo

Com’è bello farsi spiegare l’ingegneria dai progettisti di una volta al Museo Storico Alfa Romeo. I tecnici del Biscionecresciuti alla scuola di Orazio Satta Puliga – l’ingegnere torinese che, a partire dagli anni 50, contribuì a completare la trasformazione dell’Alfa da piccola a grande fabbrica di automobili oggi hanno i capelli bianchi e qualche ruga sul viso. Quando incontrano un vecchio collega difficilmente riescono a trattenere l’emozione. I loro occhi si cercano e si trovano come ai vecchi tempi, quando sui tecnigrafi del Portello, gomito a gomito, progettavano macchine destinate a fare sognare intere generazioni di automobilisti.

Alfa 90 e Alfetta CEM

I 40 ANNI DEL ‘VIOLINO DI ARESE’. Orazio Satta aveva proprio ragione quando diceva che, più che una fabbrica di automobili, l’Alfa Romeo è ‘un modo di vivere’. Una scuola di vita e di pensiero i cui allievi, oggi come ieri, non sono mai stanchi di imparare. E se è vero che tra gli scaffali dell’archivio storico di Arese è possibile conoscere vita, morte e miracoli della casa milanese, diverso è ascoltare le voci di chi ha vissuto da protagonista alcune delle sue fasi più importanti. Come i tecnici che lavorarono al progetto delV6 ideato da Giuseppe Busso, relatori d’eccezione alla conferenza organizzata dall’Alfa Club Milano al quinto piano dell’ex Centro Direzionale per festeggiare i quarant’anni del leggendario 6 cilindri a V di 60 gradi che gli alfisti da tempo hanno romanticamente ribattezzato ‘il violino di Arese’.

Cassoncino CEM

A LEZIONE DI INGEGNERIA. Per l’ultimo appuntamento della maxi rassegna Dietro le quinte – Backstage – dodici appuntamenti centrati su capitoli poco conosciuti della storia dell’Alfa Romeo che il pubblico del 2019 ha molto apprezzato al museo c’era un bel pezzo della vecchia guardia dell’azienda. Prendere un caffè con Elvira Ruocco,entrata al Portello nel 1972 e dal 1983 al 2005 custode del patrimonio storico della casa, significa tuffarsi dritti al cuore del Biscione. Una sensazione simile si prova nello stringere la mano a Carla Busso, figlia dell’uomo a cui si deve la progettazione meccanica di tutte le Alfa dalla 1900 all’Alfetta. E poi ci sono loro, Giorgio Figliozzi e Franco Arcari, gli ingegneri che insieme al curatore del museo, Lorenzo Ardizio, hanno spiegato il funzionamento del CEM ai presenti in sala Giulia. Sala che con il passare dei minuti – considerando anche la complessità della materia,quell’ingegnoso “Controllo Elettronico Motore” su cui a cavallo degli anni 60 e 70 si scervellarono fior di progettisti – ha assunto in tutto e per tutto le sembianze di un’aula universitaria.

Ardizio con Giorgio Figliozzi

L’OBIETTIVO È INQUINARE MENO. Tra fittissimi report tecnici e intricati schemi oleodinamici, Figliozzi e Arcari hanno svolto alla perfezione il loro ruolo di docenti. Traducendo intere pagine di ingegneria come meglio non avrebbero potuto, i due ingegneri hanno tolto da un certo imbarazzo anche i meno preparati in materia. Così, slide dopo slide, il concetto alla base del CEM e il suo funzionamento sono apparsi sempre via via più chiari. Così come chiare, dietro ai calcoli e agli esperimenti di Dario Radaelli (responsabile dello sviluppo teorico del sistema) e Aldo Bassi (capo della sperimentazione), sono apparse le ragioni del progetto: farsi trovare pronti con propulsori nuovi, prima in America e poi in Europa, in vista dell’entrata in vigore di nuove norme antinquinamento. Misure sempre più severe che, presto o tardi, avrebbero finito col mettere la parola fine ai brillanti ma assetati motori a carburatori.

Libretto

CE LA FAREMO? Una partita globale che in prima istanza vede scendere in campo la CEE (Comunità europea) e, in Italia, il CNR (Centro Nazionale delle Ricerche). Attraverso l’erogazione di borse di studio “per studenti e operai promettenti che avrebbero ricevuto una formazione elettronica”, come si legge in un documento conservato nell’archivio storico della casa, l’Alfa Romeo si candida come una delle teste di ponte nella sfida per la riduzione delle emissioni inquinanti. Un progetto tanto avvincente quanto ambizioso che, con la decisione di proporsi come subcontraente nell’accordo che nel 1979 aveva portato nelle casse del Centro Ricerche Fiat 23 miliardi di lire per lo “sviluppo di nuove tecnologie”, comincia a destare più di qualche preoccupazione in azienda. D’ora in poi, in aggiunta alle sue normali attività, l’Alfa Romeo si sarebbe dovuta occupare anche di vetture a propulsione ibrida e motori a ciclo modulare. Un impegno di proporzioni titaniche che, in caso di insuccesso, avrebbe creato non pochi problemi alla rinomata, ma pur sempre piccola fabbrica milanese. Chi non ha dubbi al riguardo è il responsabile delle operazioni di ricerca e sviluppo, l’ingegner Filippo Surace, che condensa tutte le sue perplessità in un’unica, emblematica nota ancora conservata in archivio: “Può Alfa farsi carico di una cosa così grande?”.

Schema CEM

IN ANTICIPO SUI TEMPI. A livello industriale, per l’Alfa Romeo il progetto CEM segna il passaggio dall’iniezione meccanica a quella elettronica. “La base di partenza fu il sistema di iniezione meccanica messo a punto con la Spica. Il primo step riguardò la trasposizione degli elementi di controllo da meccanici a elettronici”, spiega Giorgio Figliozzi. “Poi studiammo tutta una serie di funzioni – continua il progettista –, tra cui la correzione barometrica della carburazione e l’esclusione del carburante in fase di rilascio. A gestire il tutto era una centralina elettronica che riceveva i segnali da sensori esterni, li elaborava e li inviava agli attuatori”. Un sistema che, per ottenere la coppia ai bassi regimi e la potenza tipiche dei propulsori ad alimentazione singola, prevedeva quattro farfalle e quattro elettro-iniettori, uno per cilindro. Secondo Figliozzi si trattava di un gioiello di elettro-iniettore, “perché era di dimensioni ridotte e assorbiva poca potenza”. Senza considerare il fatto, sottolinea Franco Arcari, che “spruzzava benzina molto più velocemente rispetto al componente sviluppato dalla Bosch”. Era insomma il fiore all’occhiello di un sistema molto ingegnoso “la cui innovazione più grande”, concludono Figliozzi e Arcari, “fu l’ottenimento di un’unica mappatura per l’accensione e l’alimentazione del motore”.   

Ardizio

RAFFINATO MA TROPPO COSTOSO. Il progetto del motore modulare a controllo elettronico sembra dare risultati promettenti già con il primo lotto di dieci Alfetta sperimentali consegnate nel 1981 ad altrettanti tassisti di Milano che, d’accordo con la casa madre, s’impegnano a fornire periodicamente ai tecnici dell’Alfa report puntuali sul funzionamento del motore. Il passo successivo, un paio d’anni più tardi, sarà la realizzazione di 991 esemplari di Alfetta 2.0 CEM, anche questa volta destinati a una clientela selezionata che avrebbe mantenuto un filo diretto con la casa per il monitoraggio delle vetture. Nonostante da un punto di vista tecnico si fosse ormai giunti a esiti più che incoraggianti, per ragioni di costo il CEM non conoscerà mai un impiego industriale su larga scala. Nel 1985 sarà montato, in forma semplificata, sull’Alfa 90 2.0 V6 Iniezione, quando le infinitamente maggiori economie di scala della Bosch – colosso tedesco specializzato nella realizzazione di impianti di iniezione per diversi costruttori, tra cui proprio l’Alfa Romeo – suggeriranno alla dirigenza della casa milanese di abbandonare il progetto.

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Un commento su “CEM, l’iniezione elettronica Alfa Romeo”
  • Dave67_GT ha scritto:

    il V6 della 90 era CEM ? caspita, questa non la sapevo…
    E’ possibile apprendere in che misura il CEM fosse applicato “in forma semplificata” ?
    grazie

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