60 anni fa il Trieste toccava il fondo del mare
Siamo nel 1953. La città di Trieste non è ancora tornata italiana dopo la guerra e uno svizzerotto con gli occhiali tondi e la faccia da scienziato pazzo si presenta ai cantieri navali. Vuole farsi costruire un altro batiscafo, dice, perché quello che aveva l’ha già venduto. Giuseppe Buono, il tecnico che lo accoglie, non si sorprende per niente. Lui conosceva Auguste Piccard, almeno di fama. Di lui in giro si diceva che invece di andare dietro alle gonnelle, da ragazzo si divertisse a esplorare la stratosfera col fratello Jean. E non erano chiacchiere da bar. No: nel 1932 i due fratelli arrivarono davvero a quota 16mila metri, a bordo di un pallone aerostatico. Due anni dopo il fratello, ormai americanizzato, va ancora più su e stabilisce un nuovo record. Ma per Auguste il tempo della testa fra le nuvole ormai era finito. Adesso aveva interessi opposti: letteralmente. Visto che si era fissato con le leghe sotto i mari.
QUELLA MATTINA, AI CANTIERI NAVALI. Per questo motivo era andato a Trieste, Auguste. Per commissionare il batiscafo che gli avrebbe permesso di raggiungere la sua passione più profonda: gli abissi inesplorati. E così, insieme a Buono, costruisce questa specie di Nautilus. E appena lo ritira, col figlio Jacques, comincia a scandagliare mari e fondali di mezzo mondo. L’anno del varo, al largo dell’isola di Ponza toccano i -3150 metri. Ma quella puntata mediterranea è solo un rodaggio, per batiscafo e equipaggio. È nel 1960 che Auguste raggiunge il punto più basso della sua carriera che, per un esploratore degli abissi marini, è una cosa positiva (anche se a immergersi sarà il figlio, è il Trieste di papà Piccard, che lo porterà sul fondo dell’oceano).
ARRIVANO GLI AMERICANI. Un passo indietro. Nel 1958 il Trieste viene arruolato dalla marina americana (la verità è che per l’ambizioso progetto di Piccard ci volevano soldi e appoggi che solo la prima potenza del mondo poteva assicurare). Per questo, il 5 ottobre del 1959, il Trieste lascia il porto militare di San Diego, in California, alla volta dell’isola di Guam, vista Filippine. È così che ha inizio l’operazione Nekton: nel mirino del batiscafo c’è un traguardo ambizioso. Il punto più profondo degli abissi è stato trovato a suon di esplosioni (per misurare il ritardo dell’eco): la fossa delle Marianne. Finalmente, dopo alcune immersioni di prova, il 23 gennaio del 1960 la nave di supporto riceve una comunicazione da Jacques Piccard e Don Walsh, i due membri dell’equipaggio. Il sistema sonar/idrofono, con un ritardo di 7 secondi, annuncia il raggiungimento dell’obiettivo (dopo un’esplosione a bordo che ha fatto temere il peggio). Nove ore dopo l’inizio della sua discesa, il Trieste aveva raggiunto il fondo degli oceani, toccando quota -10916 metri. Da allora, nessun altro uomo è sceso tanto in basso, almeno fino al regista James Cameron, che nel 2012 lo trasforma addirittura in un’emozione da grande schermo.
LAGGIÙ, IL TEMPO NON SI È MAI FERMATO. Intanto, al rientro dalla missione, dall’altra parte del mondo un’azienda di Ginevra riceve un telegramma. Felice comunicare – STOP – vostro orologio funziona bene – STOP – anche a -11000 metri – STOP. In Rolex gongolano, il Deep Sea Special ce l’ha fatta. Appositamente realizzato per questa sfida, l’orologio applicato all’esterno del batiscafo non ha smesso di funzionare un secondo. Derivato dall’esperienza del Submariner (nato nel 1953), per resistere a pressioni abissali di 1100 kg per centimetro quadrato, oltre alla cassa in acciaio ricavata dal pieno, questo pezzo unico aveva un vetro con una curiosa forma a cupola.
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