C’era una volta l’Avvocato Agnelli
SE NE È ANDATO VENT’ANNI FA. “Giovanni Agnelli è spirato nella sua casa torinese, dopo mesi di malattia”. Così, in un breve comunicato diffuso dalla famiglia, il 24 gennaio 2003, fu annunciata la morte del senatore a vita, che tutti – dai suoi operai ai politici, dai membri del jet set ai giornalisti ai giocatori della sua amatissima Juventus – chiamavano l’Avvocato con la “A” maiuscola, anche se il gran capo della Fiat, dopo la laurea, avvocato non lo divenne mai.
MILLE VOLTI. Al di là del suo noto e indiscusso ruolo di capitano d’industria, Gianni Agnelli è stato moltissime altre cose. Fu al comando della Fiat per tre decadi a partire dal 1966, anno in cui, 45enne, ereditò la guida dell’impero di famiglia dal suo grande mentore, il Professore Vittorio Valletta, il manager che inventò la 600 e la 500, motorizzando l’Italia. Ma Gianni Agnelli, oltre che imprenditore, si è distinto come politico, mecenate e fine conoscitore delle arti (era, in particolare, un grandissimo esperto di pittura), abile velista, viveur e playboy incallito. E anche, racconta chi l’ha conosciuto da vicino, un buon pilota. Uno che in macchina aveva il piede pesante sia quando guidava le sue Fiat (che faceva sempre impreziosire con qualche modifica esclusiva, assecondando il suo lato più glamour e aristocratico), sia quando si calava (con una certa difficoltà, dopo l’incidente che nel 1952 gli menomò la gamba sinistra, irrigidendola irrimediabilmente) nelle sue fuoriserie da sogno. Come la sua eccentrica Ferrari a tre posti e con guida centrale, recentemente tornata sotto le luci della ribalta dopo lunghi anni di oblio grazie a un super restauro durato quattro anni.
TRENT’ANNI DI SFIDE. Sotto la reggenza di Gianni Agnelli, la Fiat attraversò momenti di assoluta grandezza. Rinforzando, con l’acquisizione di gioielli come Ferrari, Lancia e Alfa Romeo, la sua posizione di potenza incontrastata dell’auto sul suolo nazionale. Ma il colosso torinese si trovò anche a fare i conti con periodi pesantissimi, che causarono enorme preoccupazione per la sua tenuta, superandoli a volte brillantemente, altre assai meno. Dalla spensierata “Dolce vita” ai drammatici anni “di piombo” e alla marcia dei quarantamila, fino allo storico accordo con la General Motors. Quando finalmente nel 2000, non senza un certo ritardo nella corsa sui giganti globali del settore, il Lingotto si convinse a mettere in atto quella riorganizzazione del business automobilistico sulla quale, qualche anno più tardi, Sergio Marchionne avrebbe costruito il progetto di acquisizione della Chrysler e gettato le basi per la nascita, nel 2014, del gruppo FCA.
GRANDE TRA I GRANDI. I tempi, in realtà, erano cambiati da un pezzo, e Agnelli lo sapeva molto bene. Ma in cuor suo, e finché sarebbe rimasto in vita il suo impero, l’Avvocato non avrebbe mai tollerato di vederlo spartito con altre potenze. Nonostante le minacce delle lotte sindacali, i contrasti e i flirt infiniti con la politica, il terrorismo, la crisi energetica e una concorrenza internazionale sempre più spietata. Sotto i colpi di questo inarrestabile terremoto sociale ed economico, l’Avvocato aveva in qualche modo combattuto una guerra di logoramento per vincere le resistenze di molti suoi dirigenti aggrappati a un modo ormai superato di fare impresa. Ma oggi lo sfondo è quello di una Fiat sempre più internazionale e di una Torino in cui il mito di Gianni Agnelli riecheggia in un contesto nel quale l’auto ha progressivamente perduto il suo ruolo di motore quasi esclusivo dell’economia cittadina. Adesso il ricordo “del principe e del suo impero” lascia il posto a quello, più dolce e malinconico, di un uomo invecchiato senza mai smettere d’inseguire le sue passioni, né rinunciare ai suoi slanci più eccentrici. Con quei suoi exploit spassosi e scanzonati davvero unici e con il suo modo di rapportarsi con le grandi élite e di parlare con i grandi del mondo con una nonchalance d’altri tempi.