Aston Martin Vanquish, 20 anni di bellezza senza tempo
“Una delle migliori granturismo a motore anteriore di tutti i tempi”, Motor Trend. “Divora i rettilinei con gusto, ma ha anche una gran fame di curve”, Evo. “Un capolavoro automobilistico”, The Sunday Times. Leggendo la rassegna stampa internazionale di vent’anni fa sulla Aston Martin Vanquish, si viene catapultati in un universo parallelo. Anzi, in un regno magico. Quello della più tecnologica e sofisticata automobile progettata e costruita fino a quel momento dall’Aston Martin. Nel 2001, negli sconfinati padiglioni del Salone di Ginevra, forse solo la Bugatti EB 16-4 Veyron e la Pagani Zonda C12 S fecero ugual scalpore, ma né la francese né l’italiana avevano l’eleganza che il numero uno dello stile Aston Martin del tempo, Ian Callum, aveva con sapienza cominciato a infondere già nelle superfici morbide e sinuose del prototipo Project Vantage, che dell’Aston Martin Vanquish è molto più di un’antenata spirituale.
PURA BELLEZZA. Di quell’affascinante concept car, apparsa nel 1998 sotto i riflettori del Salone di Detroit, la Vanquish è un clone pressoché perfetto, perché in alcun modo i vincoli produttivi – spietati killer degli spunti più edonistici, di solito, tutte le volte che una bella macchina intravede le luci della catena di montaggio – corrompono la purezza formale del concept originario. Già, per fortuna del grande popolo dei motori (e per bravura dell’Aston Martin) la Vanquish è venuta al mondo esattamente com’era stata immaginata. Con il suo bel 6.0 V12 interamente in alluminio, tanto per cominciare: un motore rivisto a fondo nei collettori d’aspirazione, negli alberi a camme, nel comando delle valvole, nell’albero motore e nel sistema di scarico rispetto al dodici cilindri della DB7, della quale la Vanquish, con i suoi 460 cv, è il 7 percento più potente. Ora, si potrebbero sciorinare fior di numeri da rimanere a bocca aperta (come la velocità massima, 306 km/h), eppure non è scorrendo la scheda tecnica che si afferra la vera essenza della Vanquish, definita al traguardo dei vent’anni dal presidente dell’Aston Martin Paul Spires “un pezzo straordinario della nostra storia, un’auto a cui guardiamo con profondo orgoglio”.
FASCINO ANTICO. Nella Vanquish, che rimane probabilmente l’omaggio moderno più affascinante alla grande tradizione automobilistica dell’Aston Martin, la naturale tensione muscolare della carrozzeria è impreziosita dai più squisiti spunti british che hanno reso famoso in tutto il mondo il marchio fondato a Londra 108 anni fa. Inconfondibilmente Aston Martin, va da sé, è la grande calandra con i listelli della griglia cromati, ma in realtà è tutta l’auto, nella sua interezza, a condensare in un nuovo, più dinamico manifesto d’eleganza il linguaggio formale delle più belle Aston degli Anni ’50 e ’60. Di straordinario (ma neppure troppo, in verità: in fondo, stiamo parlando di uno dei costruttori di automobili più rinomati al mondo), c’è che sotto l’abito elegante della Vanquish si cela una tecnologia ancor più sofisticata. Alcune soluzioni d’avanguardia arrivano dritte dall’industria aerospaziale, come lo speciale materiale che per non diffondere il calore emanato dal motore riveste l’intero impianto di scarico e la paratia anteriore, altre ancora dalla Formula 1, come il cambio manuale robotizzato con le palette al volante.
UN CAPOLAVORO COME OGGI SE NE VEDONO POCHI. Pure i pannelli interni della carrozzeria, realizzati in materiali compositi, e il telaio, sviluppato intorno a una vasca d’alluminio, incollando gli elementi strutturali in carbonio all’ossatura centrale per creare una cella di sicurezza ad alta resistenza, derivano dal mondo delle competizioni. A dimostrazione che, nel genoma meccanico della Vanquish, davvero i geni della granturismo di lusso si mescolano a quelli della macchina da corsa. Su ognuna delle 2589 Vanquish prodotte tra il 2001 e il 2007 i rivestimenti esterni del tetto, dei cofani, dei parafanghi e delle porte, costruiti in una lega di alluminio superplastico, sono stati lavorati e fissati alla scocca a mano. Otto settimane, nei reparti della storica fabbrica inglese di Newport Pagnell, nel Buckinghamshire, occorrevano per completare il capolavoro. Da quella fucina dei sogni, culla della più fine arte automobilistica, alle nostre strade di oggi, così piene di auto a volte un po’ troppo anonime, a volte un po’ troppo arroganti, c’è una voragine da colmare.