La cilindropedia: i ‘mostri’ a quattro teste
Nonostante quello che pensi, il quattro cilindri è vecchio come la moto. O quasi. Già perché prima che i giapponesi trasferissero su strada questa configurazione che profuma ancora di pista (e parlo della Honda Four del 1969, la moto che rese popolare le pluricilindriche), il frazionamento era già stato considerata una scelta obbligata, più che logica. E questo perché nella preistoria del motorismo le moto erano viste come auto a due ruote. Ecco il motivo per cui progettisti professionisti e inventori della domenica hanno cominciato a costruire due ruote con quello che avevano sotto mano: tipo i motori delle automobili incidentate. Non è un caso, quindi, che già agli inizi del ‘900 i belgi della FN equipaggiassero la propria moto con un quattro in linea: montato longitudinalmente e guarda caso con trasmissione a cardano. Ti dice niente? La moto è subito un successo. Lo schema piace anche agli americani che fanno una bella operazione di copia incolla. Nascono così le prime moto civetta della polizia (qualche nome: Ace, Harley, Henderson e Indian). Va bene, il quattro sotto la sella nasce all’estero, eppure è in Italia che diventa grande. La scena è questa: stand Gilera del Salone di Milano, anno 1940, XVIII dell’era fascista, più semplicemente ultimo scampolo di pace. I fortunati visitatori, ignari della guerra alle porte, possono ammirare per l’ultima volta la Rondine campione d’Europa. Considerata la prima quattro cilindri moderna, ha il motore montato trasversalmente, distribuzione bialbero a camme in testa, raffreddamento ad acqua e compressore ad ingranaggi. Il tutto per una larghezza di 35 centimetri. Insomma il futuro c’era già 80 e rotti anni fa.
ARRIVANO I NOSTRI. Nessuno si sorprende, quindi, che ci sia stato un lungo periodo, dal dopoguerra agli inizi degli Anni ’70, che il quattro cilindri parlasse solo italiano. Com’è facilmente immaginabile, viste le premesse, all’inizio i mondiali sono dominati dalle rosse Gilera che, grazie all’esperienza maturata con la Rondine, aveva schierato moto imbattibili. Capaci di andar forte e di attirare i piloti più veloci. È così che la casa di Arcore primeggia ovunque: sei mondiali costruttori, tre Tourist Trophy e pure la Milano-Taranto. La moto di Masetti, Duke e Liberati aveva un motore di 500 cc, quattro tempi, con poco meno di 70 cv a oltre 10mila giri. Per la velocità massima, con la tipica carenatura integrale a campana, si parlava di punte di 260 km/h. Sembra incredibile eppure tutte le ere, prima o poi, finiscono. A quella Gilera capita per colpa di un’altra lombarda, la MV Agusta. A onor del vero dietro al quattro di Varese c’è proprio un cervello in fuga da Arcore, Piero Remor. All’inizio la trasmissione finale è rigida, ma poi si torna alla catena: in versione 350 e 500 cc, il quattro cilindri MV comincia a vincere nel ’56 con John Surtees e finisce nel ’74 con Phil Read.
MOSTRI A QUATTRO TESTE. Scorrendo gli annali della storia delle due ruote ti accorgerai che il quattro ha saputo scatenare la fantasia dei progettisti come il due. Ecco allora versioni boxer (Honda Gold Wing), longitudinali a sogliola (BMW K100), quadrati (come quello dell’Ariel Square Four, un bicilindrico piazzato dietro a un altro. Ma anche nella reinterpretazione giapponese a due tempi: la RG Gamma 500, a V (come le Honda VFR o il più blasonato Aprilia, voluto da patron Beggio per la RSV4 e ideato dall’ingegner Lombardi. Interessante anche l’Apollo della Ducati, un’anti Harley pensata per motorizzare la polizia americana, che aveva un motore che era sostanzialmente un doppio bicilindrico a L). Come ogni compilation che si rispetti, ci sono anche un paio di bonus track. Il turbo della Mammut 2000, la Münch motorizzata Cosworth (se ti piace l’idea della sovralimentazione c’è anche la contemporanea Ninja H2 della Kawasaki) e i pistoni ovali della Honda NR. Due bielle per pistone e otto valvole per cilindro per una 750 cc unica (con quasi 130 cv a 14000 giri). E costosissima.
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