Lancia, la storia della fabbrica delle meraviglie
E pensare che il cavalier Giuseppe Lancia, un imprenditore che aveva fatto fortuna nel settore degli alimenti in scatola, lo voleva avvocato. Fortuna, vien proprio da dire, che il piccolo Vincenzo, nato il 24 agosto del 1881 a Fobello, tra i monti dell’alta Valsesia, di studiare non ne voleva proprio sapere. E che nel cortile della casa dove viveva con la famiglia, a Torino, in Corso Vittorio Emanuele II, alla fine dell’Ottocento aveva sede l’officina di Giovanni ed Ernesto Ceirano, due fratelli che costruivano biciclette ma che s’erano messi in testa di tentare l’avventura dell’automobile. Per il giovane Lancia – che da grande, con il suo bel paio di baffi, all’ombra della Mole diventerà per tutti Monsù Censin – il richiamo di quella piccola fucina di pezzi meccanici è irresistibile. Comincia a seguire gli operai come un’ombra, si dà un gran da fare, impara presto e bene l’arte della riparazione. Diventa così bravo che, a un certo punto, il padre non può che acconsentire a fargli abbandonare gli studi di ragioniere in cambio di un posto di lavoro come contabile nell’officina dei Ceirano.
MECCANICO, COLLAUDATORE E PILOTA. Sul volto di quel diciassettenne che sogna l’automobile a occhi aperti e che, giorno dopo giorno, apprende i segreti della meccanica da Aristide Faccioli, uno dei più brillanti ingegneri italiani dell’epoca, non è difficile intravedere un grande avvenire. Tenere in ordine i conti dell’azienda, però, non fa per lui. Con buona pace del padre, che l’avrebbe voluto in ufficio tra i libri contabili e non a sporcarsi le mani in officina, Vincenzo diventa una sorta di guru quando si tratta di individuare e riparare i guasti subiti dalle poche automobili che circolano sul suolo cittadino. E quando, poco dopo aver fondato la Fiat, il cavalier Giovanni Agnelli, il nonno dell’Avvocato, rileva la piccola fabbrica dei Ceirano, non ha dubbi sulla conferma di Vincenzo, cui assegna addirittura i gradi di capo-collaudatore. Per Censin, che a diciott’anni è un ragazzone con la passione per Wagner e per la buona tavola, è l’anticamera perfetta di quella che, con la decisione della Fiat di partecipare alle corse automobilistiche, sarà una strepitosa carriera di pilota. Insieme all’amico Felice Nazzaro – un cavaliere del rischio la cui aura di leggenda finirà col ‘condannare’ alle corse un altro grande italiano del Novecento, Enzo Ferrari – Lancia diventa pilota ufficiale, dimostrando una capacità di guida e una conoscenza del mezzo meccanico fuori dal comune. Qualità che costelleranno la sua parabola al volante, una finestra professionale lunga dieci anni, con quasi venti vittorie.
ALLE ORIGINI DEL MITO. Ma il grande passo, il momento che segna l’inizio dell’avventura di Vincenzo Lancia come costruttore di automobili, risale al novembre del 1906. Con il benestare (e forse addirittura l’incoraggiamento) di Agnelli, Censin si mette in proprio e con l’amico Claudio Fogolin, anch’egli collaudatore della Fiat, fonda la Lancia & C. È tra le mura della vecchia fabbrica della Itala, in via Ormea, a due passi dallo stabilimento Fiat di corso Dante, che Lancia comincia a cullare il sogno di un’automobile più leggera e veloce di tutte le altre. La prima vettura ha nome d’officina Tipo 51 e debutta ufficialmente al Salone dell’automobile di Torino del 1908. Il telaio nudo costa diecimila lire. Nel 1919, su suggerimento del fratello Giovanni, professore di lettere e grecista, Vincenzo decide di ribattezzare la sua prima creatura ‘Alfa’. Con effetto retroattivo, tutti i modelli fino ad allora prodotti vengono rinominati con lettere dell’alfabeto greco, semplici o composte, inaugurando una tradizione che s’interromperà con l’Aprilia, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, e che verrà ripresa soltanto all’inizio degli Anni ’70 con la Beta, la prima Lancia dell’era Fiat.
CON L’ENTUSIASMO DI UN BAMBINO. La Lancia parte bene e, con la produzione di 108 Alfa, si appresta a cominciare con il piede giusto un’avventura industriale ricca di successi ma che – com’è lecito attendersi da ogni impresa degna di tal nome – non sarà soltanto rose e fiori. Proprio l’Alfa, una macchina di cui Vincenzo Lancia poteva dirsi senz’altro soddisfatto, era uscita dai cancelli di via Ormea in ritardo a causa di un incendio che aveva distrutto, insieme ai disegni, praticamente tutti i pezzi dell’auto costruiti fino a quel momento. Un rogo che aveva fatto mordere le mani dalla rabbia a Monsù Censin, mandando in fumo un buon pezzo della sua officina ma non la sete di progresso e le idee rivoluzionare che animavano i tecnici e gli operai della piccola Casa torinese. Forte, tenace, spinto dall’entusiasmo del bambino felice che era stato e che, in fondo, continuava a essere per quella sua straordinaria capacità di andare al di là dei sogni, Vincenzo Lancia stava tracciando giorno dopo giorno la strada che avrebbe reso la sua fabbrica famosa in tutto il mondo.
IL CAPOLAVORO E IL TESTAMENTO. Nel 1909 debuttano la Beta e la Gamma, quattro anni più tardi la Theta, prima automobile europea con l’accensione elettrica. Ma il bello deve ancora venire. L’auto della svolta, nel 1922, è la Lambda, prima macchina al mondo con struttura portante e sospensioni indipendenti. Non era mai accaduto prima che telaio e carrozzeria fossero un tutt’uno. Forma e sostanza fanno ora parte di un unico, grande disegno, attraverso il quale Vincenzo Lancia riesce ad allargare l’orizzonte della propria fantasia in nome della leggerezza, della sicurezza e persino dell’economia di esercizio. È soltanto merito suo, infatti, se il costo giornaliero per il mantenimento di un’automobile scende per la prima volta sotto quello del cavallo, 14 lire al giorno contro le 24 per il più nobile degli animali domestici. Se la Lambda, costruita fino al 1931 in nove serie e oltre tredicimila esemplari, è riconosciuta all’unanimità come il capolavoro di Vincenzo Lancia, l’Aprilia rappresenta l’eredità, tecnica e spirituale, che il geniale costruttore lascia ai lancisti di tutto il mondo. Vincenzo siede per la prima volta al volante della sua nuova automobile in una sera di inizio estate del 1936. Dopo aver macinato un centinaio di chilometri d’un fiato e senza aprir bocca, una volta sceso dal prototipo decide di rompere quel lungo silenzio che, c’è da giurarci, doveva aver suscitato non poca apprensione nei suoi più stretti collaboratori. “Che macchina magnifica!”, esclama, soddisfatto e completamente ignaro del disegno crudele che il destino ha in serbo per lui.
ADELE E LA SCOMMESSA DI GIANNI. La mattina del 15 febbraio 1937, quando ormai le prime Aprilia sono praticamente pronte a lasciare la linea di montaggio, Vincenzo Lancia chiude gli occhi per sempre. Se ne va in silenzio alle prime luci dell’alba, sottovalutando un dolore al petto e preferendo non svegliare la moglie. Non aveva ancora 56 anni. La morte di Vincenzo arriva come un fulmine a ciel sereno. Ancora scossa per la scomparsa del marito, la moglie (ed ex segretaria) Adele Miglietti prende in mano le redini della fabbrica del borgo San Paolo, nel cuore della Torino operaia, in un’epoca in cui non era certo consuetudine vedere una signora con tanto di cappellino in testa impartire disposizioni ai tecnici e far quadrare i conti. La gestione di Adele, un compito non facile di per sé e ulteriormente complicato dai duri contraccolpi della Seconda guerra mondiale, dura dieci anni. Nel frattempo, il figlio Gianni, che non è più un ragazzino da un pezzo e coltiva una passione bruciante per le corse, si laurea in ingegneria. Nel 1948, ad appena ventitré anni, eredita il timone dell’azienda fondata dal padre e mette subito in cantiere il progetto dell’Aurelia, che affida all’inventiva di Vittorio Jano e Francesco De Virgilio. Il risultato sarà la prima automobile con motore V6 al mondo e una breve, ma intensa avventura sportiva da parte di una fabbrica che, in quasi mezzo secolo di storia, non si era mai affacciata al mondo delle competizioni. Gli anni dal 1953 al 1955 vedranno la casa torinese impegnata sui più importanti campi di gara internazionali in veste ufficiale, prima nella categoria Sport, con le Tipo D-Competizione, e poi in Formula 1, con la monoposto D50. Gli esordi sono travagliati, i successi esaltanti, gli investimenti azzardati. Persino per un colosso come la Lancia, che alla metà degli Anni ’50 aveva già stanziato una grossa fetta del proprio budget per rinnovare gli impianti produttivi del borgo San Paolo. Ma la partita sullo scacchiere internazionale delle corse contro avversari del calibro di Ferrari, Maserati, Jaguar e Mercedes-Benz, Gianni intende giocarla fino in fondo. Anche a costo di mettere a rischio la sopravvivenza dell’azienda paterna, per la quale – proprio attraverso l’impegno in forma diretta sui circuiti di tutto il mondo – continua a sognare un grande avvenire.
LA FINE DI UN SOGNO. L’ultimo passo più lungo della gamba, quello che farà crollare inesorabilmente il castello di sogni e ambizioni che il rampollo di casa Lancia era andato costruendosi a suon di macchine da corsa, si concretizza, mattone dopo mattone, nel cuore della fabbrica del borgo San Paolo. È un avveniristico e costosissimo palazzo di diciassette piani, pensato per ospitare gli uffici tecnici e amministrativi e per collegare i blocchi nord e sud delle officine. Un edificio di settanta metri tanto spettacolare quanto disastroso, che svetta su Torino e lentamente, accarezzando il cielo, finisce per accompagnare sulla via del tramonto una delle più nobili e antiche dinastie dell’auto. Uno dopo l’altro, i tasselli della favola Lancia cominciano a staccarsi dal mosaico. L’ultimo, quel tarlo della Formula 1 che nelle notti degli ultimi due anni a Gianni Lancia doveva aver tolto più di qualche ora di sonno, s’inabissa nelle acque del porto di Montecarlo insieme alla D50 di Alberto Ascari, che conclude anzitempo, con uno spettacolare tuffo in mare, la seconda corsa della stagione 1955. Per il due volte campione del mondo, che era passato dalla Ferrari alla Lancia nel gennaio del 1954, è l’ultima gara della vita. Quattro giorni dopo il terribile incidente, Ascari, deciso a superare il più in fretta possibile lo shock causato dalla caduta in acqua, chiede e ottiene di poter provare una Ferrari a Monza. Salito sulla 750 Sport dell’amico e compagno di squadra Eugenio Castellotti, al secondo giro trova la morte nello stesso punto del circuito dove, nel 1923, aveva perso la vita Ugo Sivocci, che con i colori dell’Alfa Romeo insieme al padre di Alberto aveva condiviso numerose imprese sportive. Per Enzo Ferrari, che aveva seguito come un padre la straordinaria carriera del giovane Ascari, è un dolore insopportabile. Per Gianni Lancia, il colpo del ko. Un pugno nello stomaco che mette al tappeto ogni ambizione futura.
LE REGINE DEI RALLY. La fine del breve regno di Gianni Lancia – che, di fronte al dolore per la scomparsa del suo pilota di punta e a un passivo economico maggiore rispetto alle previsioni, decide di abbandonare le competizioni – coincide con la sua partenza per l’America e con la cessione della fabbrica alla famiglia Pesenti, con la quale si era indebitato per la costruzione del grattacielo. Le sei monoposto D50, che nella loro breve carriera in Formula 1 avevano dimostrato enormi potenzialità, vengono cedute gratuitamente, insieme a tutto il materiale della squadra corse, alla Ferrari. A riprova del valore della monoposto progettata da Vittorio Jano, nella stagione di Formula 1 1956 la Lancia-Ferrari D50 regalerà a Juan Manuel Fangio il quarto dei suoi cinque titoli mondiali. Con i Lancia ormai fuori dal grande mondo degli affari, la casa torinese attraversa un interregno scandito da alti e bassi fino alla fine degli Anni ’60, quando proprio nel momento di maggior difficoltà spunta la Fiat. Gianni Agnelli comunica di aver acquistato al prezzo simbolico di una lira per azione la Lancia e il suo passivo, che supera i 100 miliardi, alla vigilia del Salone di Torino del 1969, stimando in centomila il numero di vetture da produrre all’anno per portare la fabbrica fuori dalla crisi. Un obiettivo che da subito impone alla dirigenza dell’azienda di razionalizzare i costi, a cominciare dalla progettazione che, con il passare degli anni, sfrutterà sempre più massicciamente le sinergie con la Fiat, la fabbrica con le maggiori economie di scala all’interno del gruppo guidato dall’Avvocato. Sotto l’ala della Fiat i tempi gloriosi della Lambda e dell’Aprilia, così come i fasti dell’Aurelia e delle barchette da competizione, sembrano lontani anni luce. Eppure, quel patrimonio di innovazione e progresso, quel serbatoio infinito di idee rivoluzionarie e soluzioni geniali è lì, a portata di mano. Racchiuso – ormai in dosi omeopatiche – tra i capannoni della vecchia fabbrica del borgo San Paolo, che col passare degli anni diventa un centro produttivo secondario. Accade così che, a cavallo tra gli Anni ’70 e ’90, sulle ali del sogno sportivo che fu di Gianni Lancia, la casa torinese torna a scommettere sulle corse. Risultato? Undici titoli costruttori e automobili entrate nella leggenda come Fulvia, Stratos, 037 e Delta. Tempi che furono e dei quali oggi, per tornare a sognare, avremmo un gran bisogno…
Buongiorno, Vorrei presentarmi: sono Lancia, nel nome di Vincenzo il mio fondatore.
La mia è una lunga, entusiasmate storia. Pensate, sono addirittura risorta due volte nell’ultimo secolo.
Mio padre veniva da Fobello, un piccolo paese della Valsesia, che si raggiunge dal fondovalle da una salita perigliosa degna del giro d’Italia. Fuori dal paese, su un pianoro del colle di Baranca restano le rovine della villa che portava il mio nome, un intorno di mura a cielo aperto dove si può immaginare la vita agiata di una famiglia industriale famosa per la trasformazione della carne in dadi da zuppe e scatole per l’esercito. Il mosaico dell’emblema di famiglia che coniò il mio marchio da calandra, comparve in quello che un tempo era il suntuoso atrio della villa.
Mio padre, giovinetto, era distratto da una passione, quella delle meccaniche veloci.
Fu subito chiaro che il giovane Censin non voleva proseguire con i sublimati di carne per fare concorrenza a Liebig, mio padre sognava la coppa Vanderbilt, Le Mans, Monza, voleva diventare un vittorioso intrepido come Ralph De Palma. Ma poi, nel confronto con gli assi temerari del volante si rese conto di non avere particolare affidabilità nel pilotaggio in competizione.
Non volendo diventare un industriale dei sublimati, segui la sua passione per le meccaniche, in modo costruttivo, a Torino, nell’ombra di una Fiat che allora tutto costruiva, e lui tutto collaudava. Ma non si può fare dell’arte del collaudo il fine della propria vita, e nel 1906, finalmente, papà Censin si decide e mi mette al mondo, coronando il suo sogno, quello di avere una azienda sua, non di sublimati ma di automobili.
Fin dalla mia nascita, mio padre ha sempre voluto il meglio per me.
Quando non poteva, cercava comunque di ispirarsi al meglio, raggiungendo sempre un risultato elevato,conseguito attraverso le sue intuizioni e la sintesi delle sue conoscenze tecniche.
Nei primi anni di vita, il mio papà decise di non sfidare il suo precedente datore, Fiat, tantomeno a Milano, l’ing. Romeo, che si ispirava ad Ettore Bugatti per le sue meccaniche veloci a 8 e 6 cilindri in linea.
Papà Vincenzo mi immaginava parente minore, ma dignitosa, della suntuosa elite automobilistica delle reali famiglie Isotta Fraschini, Duesenberg, Rolls Royce, Hispano Suiza, Bentley e Mercedes Benz.
Mio padre non pensava a clienti illustri come Gabriele d’Annunzio, Rodolfo Valentino, nobili, Re e Maharaja. Papà Vincenzo ambiva a quell’elite tecnica per produrre auto da offrire all’alta borghesia con caratteristiche sia sportive che lussuose, ispirandosi all’Isotta ma con prezzi più accessibili. Ed aveva ragione lui, nel ‘29 nonostante la crisi economica, la Dilambda sopravvisse e venne prodotta fino al 1935 senza aiuti governativi, a parte la fornitura alla Regia Aeronautica.
Proseguì nella ricerca realizzando la bassa, slanciata e lussuosa Lambda. Un sublimato di tecnologie ed innovazione. Per essa Vincenzo alloggiò l’albero di trasmissione nell’abitacolo circondandolo da un tunnel e ideo’ il marchingenio della sospensione anteriore a ruote indipendenti. Per questo la Lambda era sportiva e lussuosa allo stesso tempo. Un’eleganza e una sportività, mai ostentate o azzardate, qualità raggiunte nel segno dell’innovazione, a cui papà Vincenzo non rinunciò mai.
Ma che vita sarebbe la mia, senza sfide, senza imprese, senza i clamori delle vittorie?
Fu Gianni, figlio di Vincenzo, il patriarca fondatore, anch’egli nato a Fobello a scatenare la mia passione sportiva.
Le corse portano a qualcosa che non si conosce e che si deve immaginare: la ricerca.
Gianni comincia la sua ricerca assoldando una mente elevata e di grande esperienza, Vittorio Jano.
Nel’53 vinco la Carrera Panamericana, sono l’agile D24 con l’argentino dagli occhi di ghiaccio al volante, batto le Ferrari e il resto del mondo con quell’inedito, bilanciatissimo e compatto motore V6 esclusiva assoluta Lancia.
Nel ‘54, sono di nuovo la sfrontata D24 rossa fuoco, quella che diventerà la Lancia dell’impresa impossibile, quella che sfreccia alla Mille Miglia sfidando la fuoriclasse a 12 cilindri di Maranello, la più amata dagli italiani, ma io ho al volante il più grande pilota italiano di tutti i tempi: Alberto Ascari.
Ciccio è eccezionale, ma la D24 non è da meno, il V6 nel cofano è diverso da quello usato da Fangio per battere tutti sugli sterrati della Panamericana, è ultraquadro (alesaggio mm 93,00 – corsa mm 92,00) e questa volta sfiora i 3.8 litri.
Ferrari sottovaluta la piccola Lancia, non la ritiene degna dell’assoluto.
Si sbaglia.
Dopo 1.600 chilometri percorsi a tutto gas, Ciccio resta incollato alle barchette a 12 cilindri da 4 litri e mezzo di Maranello per sbalordire nel misto stretto.
Lancia è una fionda ed Ascari diventa Davide che abbatte il gigante di Maranello.
Vittoria leggendaria quella della Mille Miglia del ‘54 perché insperata per tutti, tranne che per Ascari, Jano e Gianni Lancia.
Jano consegna a Gianni il suo testamento, la summa di tutte le sue conoscenze la monoposto per le competizioni su pista. Mi battezzano D50 e mi presentano sfavillante ad Alberto Ascari che ammaliato, rifiuta le offerte di Enzo Ferrari.
Occhio lungo come Fangio, Ciccio capisce che la D50 ne ha di più.
Infatti sono veloce, anzi velocissima, stabile, maneggevole e aerodinamica grazie ai serbatoi laterali.
Improvvisamente l’infausto destino colpisce duro, durissimo: mi toglie Ciccio, non in corsa, ma per una tragica fatalità, provando un Cavallino.
Gianni per rispetto al grande Ascari pone termine all’impresa ed abdica definitivamente dopo aver realizzato delle irresistibili gran turismo, ancor oggi ricordate come l’Aurelia Coupe’ o la Spider de “Il sorpasso” di Risi.
A Maranello, Ferrari, passato l’attacco di bile della sconfitta alla Mille Miglia del ‘54, deve avere quelle Lancia monoposto.
Maranello erediterà tutte le D50 di Ciccio.
Senza pudore a Maranello danno una pulita alle D50, staccano il marchio Lancia, applicano un cavallino rampante e danno inizio alle danze sempre con l’argentino dagli occhi di ghiaccio. Aiuto Fangio a vincere il titolo nel ‘55, l’unico mondiale in cui Fangio vincerà divertendosi.
Poi, come oggi, aspetto.
Aspetto fino a quando, 10 anni dopo l’ultima impresa in F1, dei ragazzacci di Torino decidono di cimentarsi in un’altra avventura sportiva: il rally.
Divento la protagonista assoluta, mi chiamano:
– Fulvia, la Lancia che nel 1972 sul Col de Turini con il Drago al volante batte’ le ringhiose berlinette della Normandia, le Alpine A110 e le Porsche 911 RS
– Stratos la più stupefacente, futuristica worldrallycar di ogni tempo, anticipazione dei prototipi dei gruppi B che seguiranno
– 037 leggera, essenziale e smontabile, imbattibile su asfalto, l’ultima trazione posteriore che batte’ le 4×4 e vinse il mondiale
– S4 insuperata, spaventosa e geniale, un progetto innovativo e dirompente, che rompeva con il passato
– 4wd e Integrale, l’evoluzione delle Delta e 6 titoli mondiali consecutivi, domina su tutte le strada del mondo
Sono sempre alla ricerca di un’innovazione originale per combattere il meglio dell’ingegneria tedesca, francese, inglese e giapponese.
Combatto magnificamente, tanto da meritarmi 11 titoli costruttori.
A volte esagerano, mi fanno addirittura scendere in pista a sfidare Porsche nel campionato mondiale marche Gruppo 5 con la Beta Montecarlo Turbo dove vinco il titolo di gruppo nel 1979 e quello assoluto nel biennio 1980-1981.
Lavorano per me uomini straordinari, stilisti come Piero Castagnero, Marcello Gandini, Giorgetto Giugiaro, ingegneri sopraffini come Ettore Zaccone Mina, Nicola Materazzi, Gianni Tonti, Sergio Limone e Claudio Lombardi.
Ma è grazie ai miei piloti che devo la mia fama. Sono passati tanti anni, ma penso sempre a loro, a Felice Bonetto, ad Attilio Bettega, ad Henri Toivonen e Sergio Cresto perché sono parte di me.
È grazie a loro che nasce il mio mito e l’affetto che tanti nel mondo mi dimostrano.
Scrivo, perché volevo semplicemente rassicurarvi, mi sento viva più che mai, sto solo aspettando un invito per il prossimo ballo.
Volevo solo aggiungere che sono in tanti ad aspettarmi all’apertura delle danze, pronti a spendere per riavere di nuovo l’Integrale, la Fulvia, la Stratos e l’S4 tra le mani.
Io sono certa che saprò stupire di nuovo tutti come ho sempre fatto.
La Vostra Lancia.